I BRIGANTI NAPOLETANI GODEVANO DI “BUONA STAMPA”

I BRIGANTI NAPOLETANI GODEVANO DI “BUONA STAMPA”

I documenti storici testimoniano una percezione doppia da parte delle truppe impegnate nella repressione del brigantaggio post-unitario. I briganti vesuviani erano considerati meno feroci di quelli dell’area nolana. Di Carmine Cimmino

Nel sec. XVIII i diari dei viaggiatori e il romanzo gotico (in particolare, quelli di Ann Radcliffe) costruirono un’immagine degli Italiani che era un tenace impasto di doppiezza, slealtà, malizia, lussuria, violenza, ferocia. E anche se sul finire del secolo l’Italia viene sostituita come palcoscenico di orrori agghiaccianti dalla Transilvania, patria di Dracula, e a Ginevra Mary Shelley fa nascere il dottor Frankenstein, l’Italiano continua a portarsi addosso, nella percezione degli europei e degli americani, – prima ancora che prenda forma, negli Stati Uniti, la fama sinistra di padrini e picciotti – l’odore della congiura e della violenza.

Nella Londra tetra di Sherlock Holmes e in quella di poco più luminosa di Hercules Poirot, un italiano compare talvolta nel ruolo dell’assassino prezzolato, e le sue armi sono il coltello e il veleno. All’interno di questa percezione si dispongono punti di vista diversi. Il Galanti e poi il De Renzi, i funzionari francesi degli anni di Murat e cronisti e viaggiatori inglesi e tedeschi fissano un modello in cui il camorrista e il brigante napoletani hanno tratti di gentilezza e di dignità talvolta anche nobile, mentre l’Irpinia da una parte e le prime balze del Cilento dall’altra sono le porte di un mondo a sé, che non ha nulla in comune con la civiltà della pianura.

È un mondo di nere e interminabili foreste, di dirupi scoscesi, grotte, burroni minacciosi, in cui le donne dei contadini e dei pastori conoscono sortilegi e pratiche magiche, e i loro uomini hanno conformato aspetto e comportamenti a quelli degli animali selvatici. Edward Lear, che visita la Calabria nel 1847, così apre il suo diario: Il nome di Calabria in se stesso ha non poco di romantico…Appena il nome è pronunziato, un nuovo mondo si presenta alla nostra mente: torrenti, fortezze, cave, briganti e cappelli a punta, la signora Radcliffe e Salvator Rosa, costumi e caratteri, orrori e magnificenze senza fine.

La percezione dell’ orrore magnifico di un mondo in cui la natura è intatta e la storia è ferma ai primordi e dunque svela, a chi sa osservare, i suoi principi arcani, ispira nel secondo Ottocento le pagine non solo del lucano Petruccelli della Gattina, ma anche quelle del piemontese Tarchetti e del toscano Fucini, e tra il 1943 e il 1944 detta a Carlo Levi alcuni splendidi passi di Cristo si è fermato ad Eboli.
Testimonianze di questa percezione doppia si trovano anche nei documenti ufficiali delle truppe impegnate nella repressione del brigantaggio post-unitario.

Nelle relazioni la violenza dei briganti vesuviani non è mai descritta nei termini di una ferocia animalesca, e nelle schede degli arrestati si annotano, tutt’ al più, i segni che il vaiolo e le armi hanno lasciato sul loro corpo, e i buchi per gli orecchini. Di Luigi Auricchio, di Terzigno, uno dei più violenti compagni del brigante Pilone, i carabinieri scrivono che è povero, celibe, analfabeta, incensurato, ha capelli e occhi castagni, barba nascente, naso e mento regolari, orecchi bucati. Pilone, il suo luogotenente Ludovico Perugino, detto Piloncino, e Vincenzo Barone conquistano, con il loro fascino, la calda ammirazione delle figlie e delle mogli dei galantuomini.

Ma la musica cambia già quando entrano in ballo i briganti della banda La Gala, che semina il terrore tra Caserta, Nola e il Vallo di Lauro. Al di là dei dati oggettivi e delle diverse origini sociali, i membri di questa comitiva vengono descritti come belve sanguinarie prima dai verbali di carabinieri e soldati, che non escludono nemmeno il truce sospetto di cannibalismo, e poi dalle relazioni scientifiche (o pseudoscientifiche). Biagio Miraglia, antropologo e frenologo, giudica la testa di Domenico Papa, accolito di Della Gala, “più mostruosa di quella del Caraibo”, modello di ferocia e di stupidità e anche di quella inclinazione a gustare la carne umana che veniva attribuita ai selvaggi delle foreste caraibiche e amazzoniche: una testa prossima alla forma del ributtante capo di iena e di coccodrillo.

Per Papa non c’era speranza alcuna di redenzione; ma quasi peggio di lui stava Giona La Gala, che a dire dello studioso portava in faccia la ferocia e la vigliaccheria insieme, mentre Cipriano aveva una fisionomia più complessa del fratello: ha qualche cosa tra l’imbecille e il sospettoso. La negra e folta barba del mento in contrasto di una fronte schiacciata gli dà la mostra della stupida superbia del rettile…Un segno di elevazione dell’organo della benevolenza in questo cranio è contraddetto dall’organo della distruzione: gli impeti di quest’ultimo avrebbero potuto essere temperati alquanto dalla benché lieve attività di quello. E invero diceva Domenico Papa che Cipriano allontanavasi in quei momenti in cui Giona con freddo e truce animo mutilava e scannava vittime innocenti.

Tra quegli uomini, commenta con amarezza il Miraglia, anche chi aveva frequentato le scuole, come Giovanni D’Avanzo, diventava un animale feroce. È probabile che alla base di questi truci ritratti ci fossero, oltre che qualche dato oggettivo, anche il disprezzo e il risentimento di soldati e di carabinieri che la banda impegnò a lungo in cacce e scontri sanguinosi. Cipriano aveva iniziato la sua avventura con un’azione clamorosa. Il 16 luglio 1861 i briganti, travestiti da Guardie Nazionali, entrarono nel carcere criminale di Caserta col pretesto di dover consegnare i due malfattori che si trascinavano dietro: erano, ovviamente, due loro compagni, che, carichi di catene, recitavano con naturalezza la parte.

In un lampo, la comitiva si impadronì delle chiavi dei custodi e aprì le celle. Vennero così liberati 99 detenuti, e tra questi Giona e Romano, fratelli di Cipriano, la madre, la sorella, e Giovanni D’ Avanzo l’intellettuale.
Nella repressione del brigantaggio i comandi militari si servirono della fotografia per diffondere tra i galantuomini il rassicurante messaggio che i briganti erano solo dei brutali assassini, non erano in grado di credere in valori e principi, e dunque non meritavano rispetto né da vivi né da morti. I briganti uccisi venivano prima acconciati in posizioni umilianti e dissacranti, e poi esposti al pubblico e fotografati.

In quegli stessi anni, i tecnici delle truppe americane adottarono gli stessi criteri nel fotografare i corpi degli indiani uccisi. L’Esercito Italiano cercò di evitare in ogni modo che i briganti, vivi e morti, venissero ritratti dai disegnatori, e perciò ci fu qualche aspra polemica con i giornali inglesi che preferivano corredare gli articoli con disegni, spesso eseguiti da artisti di notevole livello, piuttosto che con fotografie. I disegnatori tendevano a idealizzare e a ingentilire: lo dimostra il ritratto a matita del brigante Gaetano Manzo, eseguito nel dicembre del 1865 dall’inglese Williams Moens, che da Manzo era stato sequestrato a Battipaglia, mentre tornava da una gita a Paestum.

La matita di Moens pulisce il profilo del brigante,– il naso aquilino, lo sguardo diritto, la dignità della barba -, e gli conferisce un’espressione vigorosa e nobile, che richiama sorprendentemente quella di Giuseppe Garibaldi nel ritratto che Eleuterio Pagliano eseguì nel 1866. L’ironia del caso e le follie dell’arte.


(Fonti: La foto con i cadaveri di Gaetano Tancredi detto Tranchella e di suoi due compagni, fucilati a Persano il 23 novembre 1864 è stata attribuita a George Sommer. Fa parte della Civica Raccolta delle Stampe “ Achille Bertarelli “. Questa foto e il disegno di Moens, in xilografia, sono stati più volte pubblicati, e tra gli altri, da Ugo di Pace nel libro Quattro mesi tra i briganti).

LA STORIA MAGRA

Autore: Carmine Cimmino

da: http://www.ilmediano.it/aspx/visArticolo.aspx?id=12552

I BRIGANTI NAPOLETANI GODEVANO DI “BUONA STAMPA”ultima modifica: 2011-02-15T18:33:00+01:00da tonyan1
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