Il brigantaggio e la distruzione dell’economia meridionale

Com’è noto, la conquista del Sud, operata dal Regno di Sardegna nel 1860, fu seguita da circa dieci anni d’insanguinata guerriglia, tra le truppe regolari d’occupazione e la popolazione meridionale riunita in gruppi di resistenti armati: quest’ultimi definiti, appunto, briganti.
Oggi è assai frequente che si tenda a distinguere tra brigantaggio comune e politico, ma questa distinzione potrebbe essere messa seriamente in discussione, da una più completa conoscenza della storia, nonché della stessa lingua italiana.

Pare, infatti, che lo stesso termine “brigante” entrò comunemente a far parte della lingua italiana, solo con le discese del generale (prima) e Imperatore (dopo) Napoleone Bonaparte.

Con tale termine, infatti, si indicavano usualmente – non solo in Italia, ma in tutta l’Europa – i resistenti antigiacobini, e non i semplici banditi.

D’altronde, è noto che proprio briganti furono chiamati, dalla Convenzione (cioè dall’allora governo rivoluzionario), già i primi reazionari controrivoluzionari del 1793, cioè gli stessi francesi, insorti a seguito della decapitazione del loro legittimo sovrano.

In questa sede, però, non si vuole ripercorrere la storia del brigantaggio meridionale. Né quella dei suoi iniziali incredibili successi; e neppure quella, ancor più drammatica, relativa all’implacabile repressione che ne seguì (la quale coinvolse, purtroppo, gran parte della popolazione civile, rea, nell’ottica del governo unitario, di collaborazionismo con i briganti). Proseguendo, piuttosto, nella già intrapresa opera di ricerca delle cause dei fenomeni, bisogna sottolineare che il brigantaggio meridionale non ebbe esclusivamente cause “ideologiche” – non si trattò cioè, di un movimento motivato solo dalla difesa dell’altare o del trono -, ma anche economiche. La conquista del Sud, infatti, segnò la distruzione della florida (beninteso: per i livelli protocapitalistici dell’epoca) economia meridionale.

Uno dei provvedimenti più svantaggiosi, perché colpì le zone geografiche e gli strati più poveri del Reame, fu la sistematica annessione al proprio patrimonio – da parte del nuovo Stato unitario – delle vastissime terre del precedente demanio del Re che, sotto il dominio dei Borbone, non appartenendo ad alcun singolo feudatario, erano date in uso gratuito alle famiglie di contadini, le quali, qualora avessero coltivato un terreno per dieci anni, non potevano più esserne allontanate, sebbene la proprietà rimanesse formalmente al sovrano.

Ma lo stesso può dirsi per l’annessione, sempre a favore dello Stato unitario, dei beni dell’asse ecclesiastico che, fino a quel momento, erano serviti come ammortizzatore sociale, consentendo alla Chiesa di sostenere i bisognosi, specie nei periodi di carestia.

Tutte le terre meridionali, così divenute di proprietà del Regno d’Italia, furono rivendute agli stessi meridionali che, conseguentemente, si impoverirono enormemente, pur di ricomprare, dai “fratelli d’Italia”, la loro stessa terra.

Questi acquisti, purtroppo, rappresentarono per molti un’attrattiva troppo forte, per poter riuscire a rinunciarvi. La proprietà della terra, infatti, costituiva un vero e proprio status symbol dell’epoca (almeno al Sud), e la smania di emancipazione sociale non fece riflettere molti contadini sulla circostanza che, su quelle stesse terre, avrebbero dovuto pagare le onerose tasse stabilite dal governo unitario, nonché sul fatto che, per poter trasferire il terreno in eredità ai propri figli, quest’ultimi sarebbero dovuti essere in grado di pagare le tasse di successione (prima sconosciute al meridione, ma introdotte dai nuovi governanti), altrimenti il fondo sarebbe stato sequestrato e venduto.

Inoltre, la conquista del Sud implicò anche la suddivisione del pesantissimo debito pubblico dello Stato sardo-piemontese, tra tutti i cittadini del Regno, ivi compresi i meridionali che, tuttavia, diversamente dai piemontesi, da quell’enorme debito non avevano tratto alcun beneficio economico.

E, a tal proposito, non si potrebbero trovare oggi parole più chiare, di quelle coraggiosamente scritte, pur all’epoca del Regno d’Italia, da Francesco Saverio Nitti: “Ciò che è certo è che il regno di Napoli era nel 1859 non solo il più reputato in Italia per la sua solidità finanziaria – e ne fan prova i corsi della rendita – ma anche quello che, fra i maggiori Stati, si trovava in migliori condizioni. Scarso il debito; le imposte non gravose e bene armonizzate; semplicità grande in tutti i servizi fiscali e nella tesoreria dello Stato.

Era proprio il contrario del Regno di Sardegna ove le imposte avevano raggiunto limiti elevatissimi; dove il regime fiscale rappresentava una serie di sovrapposizioni continue fatte in gran parte senza criterio; con un debito pubblico enorme, e a cui pendeva sul capo lo spettro del fallimento. Senza togliere nessuno dei grandi meriti che il Piemonte ebbe di fronte all’unità italiana, che è stata in grandissima parte opera sua, bisogna del pari riconoscere che, senza l’unificazione dei vari Stati, il Regno di Sardegna per l’abuso delle spese e per la povertà delle sue risorse era necessariamente condannato al fallimento.

La depressione finanziaria, anteriore al 1848, aggravata fra il ’49 e il ’59 da una enorme quantità di lavori pubblici improduttivi, avea determinato una situazione da cui non si poteva uscire se non in due modi: o con il fallimento, o confondendo le finanze piemontesi a quelle di altro Stato più grande”.
Ma forse il peggiore danno subito dal meridione d’Italia, a seguito dell’invasione piemontese, fu costituito dalla completa vanificazione dell’opera di industrializzazione iniziata dai Borbone.

Infatti, è innegabile che già l’applicazione del sistema dei dazi doganali tarati sull’esigenze del Regno di Sardegna, a tutto il territorio del nuovo Regno d’Italia – e specificatamente (in data 24 settembre 1860) al meridione, che invece, per proteggere la propria industria nascente, aveva bisogno di dazi “contrari” – diede un primo duro colpo all’emergente industria meridionale che, di lì a poco, sarebbe stata definitivamente sfavorita – specie con riferimento a quella metallurgica e siderurgica – dalla circostanza, di cui il lettore non mancherà di apprezzare l’importanza decisiva, consistente nel fatto che le commesse statali del novello Regno d’Italia furono affidate solo ad imprese settentrionali.

E non deve meravigliare che si riferisca di sviluppo industriale siderurgico nel Regno delle Due Sicilie, perché – per quanto si tratti di una realtà ignota ai più -, dopo la creazione della prima fabbrica d’armi di Torre Annunziata, il processo di industrializzazione del Sud si intensificò, anche con riferimento alla c.d. industria pesante, persino in Calabria – forse la regione meridionale oggi più industrialmente arretrata -, dove furono fondati gli stabilimenti di Mongiana (1770) e Ferdinandea (1789), il cui altoforno maggiore era capace di produrre oltre 10 tonnellate di ghisa al giorno: un traguardo per l’epoca.

A questo specifico proposito, è interessante notare come lo stesso Gioacchino Murat – nonostante fosse animato dalla medesima contrapposizione ideologica con il popolo meridionale, che avrebbe poi caratterizzato il successivo governo liberale unitario – ebbe il buon senso di accrescere la produttività dei predetti stabilimenti calabri, che poi fu ulteriormente aumentata con l’avvento al potere di Ferdinando II, fino a raggiungere le 1.000 tonnellate all’anno di ferro prodotto (che richiedevano l’impiego di circa 1.500 addetti, tra minatori, carbonai, fonditori, ecc.) –, mentre la politica economica, portata avanti dallo Stato italiano dell’epoca, non si dimostrò altrettanto efficiente, tanto che le industrie meridionali incominciarono a chiudere ad una ad una.

Dalla già citata fabbrica d’armi di Torre Annunziata, al complesso industriale di Pietrarsa (si badi: il più grande e produttivo d’Italia, dove era stato armato il primo moderno battello a vapore del mediterraneo), dall’industria tessile di S. Leucio, fino alla Zino & Henri – che costruì, assieme alla Bayard, la Napoli-Portici, ovvero la prima ferrovia d’Italia, che il Re Borbone non ebbe poi il tempo di estendere -, ecc.

Questa differenza tra la politica economica del Murat, e quella del governo unitario, fu dovuta essenzialmente al fatto che il primo era pur sempre il Re di Napoli, e doveva stare ben attento ad evitare che il territorio del suo Stato si impoverisse oltre misura, mentre il governo unitario aveva a sua disposizione un territorio assai più vasto, e poteva permettersi di decidere – come parrebbe quasi sia stato deciso “a tavolino” – che una parte di tale territorio fosse destinata allo svolgimento esclusivo dell’attività agricola.

D’altronde, forse non è solo un caso che l’arretratezza socio economica del Sud avrebbe poi potuto costituire (come in effetti costituì) una comoda giustificazione, per spiegare l’indole reazionaria dei meridionali, mentre l’immagine di un Sud d’Italia ricco e prospero (così come era, per i livelli dell’epoca, prima dell’unificazione), ma tuttavia reazionario, avrebbe certamente nuociuto alla causa della progressione

Il brigantaggio e la distruzione dell’economia meridionaleultima modifica: 2010-09-02T15:29:04+02:00da tonyan1
Reposta per primo quest’articolo