UN ‘RISORGIMENTO’ DIFFERENTE

 UN ‘RISORGIMENTO’ DIFFERENTE

I festeggiamenti per il 150° anniversario dell’unità d’Italia impongono, oggi più che mai, delle riflessioni in merito agli avvenimenti storici che hanno visto fondersi in un unico Stato le diverse realtà politico-nazionali della Penisola italiana e delle isole ad essa prossime. Proprio per tale fine, è indispensabile partire da dei preliminari che possano far luce sulla situazione socio-politico-economica dalla cosiddetta ‘Restaurazione’ (1815) fino all’alba del 1860, anno in cui ebbe inzio il processo di unificazione italiano vero e proprio.
Il Congresso di Vienna, al cui tavolo sedettero i rappresentanti delle potenze europee più importanti di allora (Austria, Russia e Prussia) pensarono di dare una sorta di ‘colpo di spugna’ alla consistente parentesi napoleonica con un tentativo di ritorno ad una situazione politica europea pre-napoleonica. Le suddivisioni statuali attuate dai componenti del Congresso tentarono dunque di tener conto dei confini nazionali dei vari Stati pre-napoleonici: per quanto riguarda l’Italia, in special modo, all’Impero Austro-Ungarico spettò l’egemonia sul Sud-Tirolo, il Friuli, la Venezia-Giulia, il Veneto, il Trentino e la Lombardia; tornavano ad essere degli Stati indipendenti l’ex Ducato di Savoia (adesso Regno di Sardegna), i ducati di Parma, di Modena e di Lucca (anche se sotto influenza austriaca), il Granducato di Toscana (anch’esso sotto influenza austriaca) lo Stato Pontificio e gli ex Regni di Napoli e di Sicilia, adesso fusi nel nuovo unico Regno delle Due Sicilie.
La condizione italiana, dunque, tornava a presentarsi grosso modo come si è man mano sviluppata, prima dell’epoca napoleonica, già da almeno la caduta dell’Impero Romano (476 d.C.) e la temporanea restaurazione imperiale sotto l’imperatore di Costantinopoli Giustiniano (565 d.C.), ovvero da oltre 1300 anni. Ciò fa già intuire quanto, in così tanto tempo, si fossero sviluppate delle situazioni socio-politico-economiche assolutamente differenti tra loro nelle varie aree in cui pian piano, nel corso dei secoli, iniziarono a sorgere gli Stati pre-unitari italiani. Allora, per quale motivo e in che senso, dopo il Congresso di Vienna, si dice che il ‘sentimento’ nazionale – derivato dalla corrente filosofico-letteraria del Romanticismo, a sua volta figlia dell’Illuminismo settecentesco in cui sorse l’idea di ‘nazionalismo’ – sarebbe diventato favorevole ad un’unificazione nazionale di Stati legittimi esistenti (sotto nomi e confini variabili) da oltre un millennio e tre secoli? Perché pensare di abolire degli Stati antichissimi, con una propria tradizione, delle proprie dinamiche e tattiche economiche ed una propria politica, e di unire tutto come se tali differenze non fossero mai esistite? E, alla luce di ciò, che tipo di unificazione si pensava, in realtà, all’epoca?
Secondo importanti studiosi come la storica Angela Pellicciari o come l’avvocato Natale Turco, l’unità degli Stati italiani – come abbiamo visto, per la maggiore legittimi e molto antichi –, pensata dai sovrani dei diversi regni protagonisti, mirava ad una confederazione di Stati indipendenti, ovvero ad una stretta collaborazione reciproca per l’entrata in vigore, nelle rispettive entità statuali, della Costituzione liberale, sulle orme della Rivoluzione Francese i cui ideali oltrepassarono le Alpi grazie all’invasione napoleonica: era l’idea della ‘Lega Italica’, ovvero un patto tra nazioni differenti che volevano conseguire il medesimo ideale, alla cui testa, si diceva, dovesse essere posto il Papa. Per questo motivo, già nel 1848, scoppiò in Sicilia quella che viene considerata la prima rivoluzione dell’epopea del ‘Risorgimento’ italiano, ovvero proprio per ottenere una Costituzione che Napoli, fino ad allora, non volle concedere, ma anche per ristabilire il secolare Parlamento Siciliano a Palermo, dopo la sua abolizione a causa della fusione del Regno di Sicilia con quello di Napoli. L’insurrezione, partita da Palermo nel gennaio di quell’anno, si diffuse per tutta l’Isola, così che la popolazione insorta, certamente guidata dall’intelligence siciliana nobile e borghese, riuscì a cacciare oltre lo Stretto di Messina l’esercito dei Borbone di Napoli. Veniva, così, ricostituito il Regno di Sicilia, abolito dai Borbone con il beneplacito del Congresso di Vienna, e sotto la guida di Ruggero Settimo (figlio dei principi di Fitalia palermitani) venne ricostituito il Parlamento siciliano, la cui storicità è provata da un’esistenza di ben settecento anni, ovvero dal XII secolo, e venne scritta la Costituzione Siciliana. Quest’ultima fu molto all’avanguaria: proprio essa ci dà una evidente testimonianza che la Sicilia non insorse perché venisse ‘fatta l’Italia’, ma perché la Sicilia tornasse indipendente e con un proprio Parlamento e Costituzione. Infatti, il suo secondo articolo recitava: « La Sicilia sarà sempre Stato indipendente. Il Re dei siciliani non potrà regnare o governare su verun altro paese. Ciò avvenendo sarà decaduto ‘ipso facto’. La sola accettazione di un altro principato o governo lo farà anche incorrere ‘ipso facto’ nella decadenza ». Ma dopo solo sedici mesi, nel maggio 1849, il ricostituito Regno di Sicilia capitolò ai nuovi attacchi dell’esercito borbonico, tornando nuovamente sotto il controllo diretto di Napoli. Nonostante ciò, la parentesi siciliana spinse alcuni dei sovrani degli altri Stati italiani (compreso quello dei Borbone) a concedere la Costituzione.
La Lega Italica rimaneva, ad ogni modo, ancora un progetto pienamente realizzabile, auspicato anche da Ruggero Settimo. Il Regno delle Due Sicilie divenne gradualmente la terza potenza mercantile e militare europea dopo Inghilterra e Francia. Storici come Corrado Mirto – professore all’Università di Palermo – parlano di industrie avanzatissime nel campo tessile e metallurgico; molto attiva era l’estrazione di minerali, soprattutto per lo zolfo in Sicilia; l’agricoltura era molto fiorente; soltanto in Sicilia esistevano ben tre università degli studi (a Palermo, Catania e Messina), così da mettere in dubbio l’altissima percentuale di analfabetismo isolano di cui tanto parlano i libri di storia scolastici; importanti primati tecnologici furono sviluppati all’interno del Regno dei Borbone, tra cui la prima tratta ferroviaria italiana (la Napoli-Pòrtici), il primo sommergibile militare, i primi casi italiani di illuminazione pubblica delle strade e di acqua corrente direttamente nelle case dei cittadini; l’industria navale vantava di essere tra le migliori al mondo. Tali condizioni permisero alle Due Sicilie di possedere ben i 2/3 del denaro in circolazione rispetto all’insieme totale di denaro circolante nel resto degli Stati italiani, mentre lo Stato più indebitato era, in quel periodo, il Regno di Sardegna, così tanto da dover cedere addirittura alla Francia le regioni di Savoia e di Nizza per ottenere un aiuto per le guerre di conquista della Lombardia contro l’Austria-Ungheria.
Intanto, la situazione commerciale nel Mediterraneo vedeva in prima linea l’Inghilterra, grazie alla previsione della prossima apertura del Canale di Suez (1869) e al respingimento delle avanzate russe verso lo stesso Mediterraneo tramite la guerra di Crimea, in cui intervenne anche il Piemonte (1839). L’unico e temibile rivale ancora da neutralizzare rimaneva proprio il Regno delle Due Sicilie. Fu per questo che la massoneria inglese, messasi in contatto con la massoneria piemontese, progettò la fine di un regno sorto formalmente nel XII secolo, che ebbe la prima monarchia parlamentare del mondo – con sede a Palermo – e che, dati alla mano, si vedeva proiettato verso il futuro più velocemente rispetto ad altri Stati, aprendo le proprie porte alla modernità con lungimiranza.
Il resto venne da sé. Tramite i forti finanziamenti ed aiuti militari inglesi, i garibaldini (che tutto furono, fuorché ‘mille’, poiché appare fin troppo assurdo pensare di poter inviare solo un tale esiguo numero di soldati contro la terza potenza militare europea), inviati dal re di Sardegna Vittorio Emanuele II con alla testa il generale liberale e massone Giuseppe Garibaldi, sbarcarono in Sicilia nel maggio 1860, senza una dichiarazione di guerra e, praticamente senza combattere, annetterono l’Isola al Piemonte, con il favore della malavita organizzata in embrione che avrebbe visto un suo consistente sviluppo negli anni successivi. La corruzione degli ufficiali borbonici (confermata da informazioni reperibili su corrispondenze tra esponenti dell’esercito piemontese e quello napolitano) diede il colpo finale al Regno delle Due Sicilie, il cui esercito capitolò ma la cui resistenza continuò ad aver luogo in quello che i ‘vincitori’ di allora chiamarono ‘brigantaggio’: tale fenomeno, in realtà, non fu altro che la ‘resistenza’ ai nuovi padroni, similmente al fenomeno della ‘resistenza’ contro il nazi-fascismo degli anni ’40 del XX secolo. La maggior parte dei ‘briganti’ catturati, se non venivano uccisi sul luogo della cattura senza un regolare processo, venivano seviziati e torturati o deportati al lager piemontese di Fenestrelle, sulle Alpi, e portati alla lenta morte per freddo e tra gli stenti. In Sicilia, decine di centri abitati furono saccheggiati e dati alle fiamme dall’esercito piemontese: il caso più clamoroso fu quello di Bronte, nel Catanese, in cui esisteva un feudo inglese che subiva le minacce di raprepesaglia da parte dei contadini del luogo, insorti contro il nuovo esercito venuto dal nord; contadini inermi, donne, bambini e malati furono fucilati perché accusati, il più delle volte senza alcuna prova, di resistere ai nuovi ‘padroni’: emblematico è il caso di Angelina Romano, di 9 anni, di Castellammare del Golfo, nel Trapanese, fucilata; ma casi come quello di Angelina se ne contano a centinaia di migliaia in tutto l’ormai ex Regno delle Due Sicilie, documentabili tramite resoconti militari piemontesi e garibaldini. I ricchissimi Banchi di Napoli e di Sicilia vennero svuotati e i capitali delle floride industrie nascenti vennero trasferiti in blocco dalla Sicilia e dalla Napolitania verso il Piemonte e la Lombardia, mentre i beni della Chiesa, compresi quelli destinati alle opere pie e di sostenimento della popolazione indigente, divennero ricco bottino, disperso o portato verso nord, comprese un numero incalcolabile di opere d’arte e beni archivistici. I fenomeni mafiosi, che fino ad allora non avevano una forma organizzativa definita, presero a svilupparsi e a divenire un vero e proprio stato nello Stato, aiutati dalle nuove condizioni di caos venutesi a creare grazie allo smantellamento dell’antico sistema politico-economico che vedeva, di contro, avanzare sempre di più i nobili ‘voltagabbana’ che decisero di aderire alla nuova ‘dominazione’ per salvaguardare i propri interessi (come sottolinea anche Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel suo romanzo storico Il gattopardo).

Da allora e fino ad oggi, l’Italia non è unita: esistono, infatti, due ‘Italie’, socio-economicamente totalmente differenti, la cui linea di divisione si trova grosso modo su Roma. Il nord Italia, conquistatore e depredatore che con l’aiuto inglese ha posto fine ad uno dei regni più antichi e promettenti per un florido futuro, si è di fatto arricchito sulle spalle di un sud-Italia rimasto da allora all’angolo dell’economia nazionale, europea e mondiale, naufragante nella malavita organizzata e costretta a cedere le sue menti migliori ad altri territori a causa dell’emigrazione dilagante, che prima dell’unità d’Italia non ci si sognava neppure ma che avveniva, di contro, già da secoli da nord verso sud: basti vedere i vari cognomi che richiamano a provenienze territoriali nordiche come ‘Lombardo’, ‘Pisano’, ‘Florenza’, ‘Provenzano’ o simili, per non parlare dei centri galloitalici presenti in Sicilia già dal XIII secolo.
Eppure, la storia che si racconta a scuola è ben diversa. Perché? Perché è chiaro che la storia sia sempre scritta dai vincitori. Così, anche gli ‘sconfitti’, ai quali viene insegnato di essere sempre stati una popolazione immersa nella miseria e nell’ignoranza, finiscono per credere davvero di esserlo stati e di esserlo ancora, dopo numerose generazioni. Atrocità umanamente deplorevoli, perpretate dai nuovi ‘padroni’ venuti dal nord, sono state rimosse dalla memoria storica dell’Italia; non così le bestialità naziste, giustamente ricordate per la loro ferocia omicida, perfettamente accostabile, però, all’operato piemontese-lombardo in Sicilia e nel sud-Italia: allora, perché le une vengono giustamente ricordate, mentre non così le altre? Quale futuro attende un’Italia che continua a far finta di non vedere, di non sentire e che continua a non parlare? Anche questa, nell’anno del 150° anniversario dall’unità, ma anche della ‘morte’ socio-politico-economica del sud-Italia, è una domanda d’obbligo alla quale finalmente si deve dare una risposta.

Da: http://laurentius.ilcannocchiale.it/post/2497877.html

 

UN ‘RISORGIMENTO’ DIFFERENTEultima modifica: 2010-08-11T18:22:28+02:00da tonyan1
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