Che cos’è un paese, se non è una nazione?

«Che cos’è un paese, se non è una nazione?
Che cos’è una cultura, senza consenso?»

Parto da un passo del libro di Clifford Geertz Mondo globale, mondi locali: «Dal naufragio del così detto “progetto coloniale” […] sono nati paesi con una struttura culturale immensamente eterogenea, spesso quasi accozzaglie arbitrarie di popoli, delimitati da confini tracciati in passato dai giochi d’azzardo della politica europea».
Non è facile esaminare adeguatamente determinati concetti e modi di intendere la realtà che noi pensiamo ci circondi. Tuttavia si può tentare di dare delle letture perfettamente rovesciabili da teorie che possono essere successivamente tracciate a partire da un differente punto di vista.
In breve, Geertz, nella citazione qui sopra riportata, parla in maniera specifica di situazioni politiche come quella indonesiana, ma anche di quella canadese, balcanica e srilankese. Si chiede, ed invita il lettore a porsi lo stesso quesito, quali siano i parametri secondo cui è possibile parlare di una ‘condivisione’ di elementi culturali che denotino l’esistenza di una nazione, stanziata su un territorio definito e perimetrato – il paese – sebbene tale perimetro fisico appaia sempre più labile all’interno del contesto globale in cui il mondo tende sempre più ad addentrarsi, venendosi, di contro, a creare nuove e più complesse divisioni – le divisioni eteree di cui parla Giacomarra.
Adesso prendiamo la situazione italiana e vediamo di analizzarla più da vicino, alla luce di tale ragionamento. Quello italiano, liquidato da Geertz come un complesso di regionalismi rivali, pare essere un contesto quasi del tutto tralasciato o sminuito dagli studi sociologici nazionali ed internazionali, a maggior ragione oggi, a distanza di oltre dieci anni dalla pubblicazione del libro sopracitato di Geertz. Le situazioni locali e globali variano, infatti, nel tempo con una velocità inaudita, così che ricerche condotte solo dieci anni addietro risultano ormai obsolete, rendendo conto di una situazione socio-politica di fatto non più esistente. Ma pare che la più parte dei sociologi tendano ad agire comportandosi un po’ come fanno i mass-media ‘classici’, ovvero riducendo la complessità in un modo talmente netto ed oggettivato da accantonare elementi comunque analizzabili che perdono la loro importanza (se mai ce l’hanno avuta) per il solo fatto di non essere tirati in ballo dagli studi effettuati. Eppure la situazione italiana non appare poi tanto meno interessante rispetto a numerose situazioni analoghe ma che, al contrario, vengono predilette dagli studi sociologici e politici. Che anche ciò abbia un senso ed una ragione politici?
L’Italia non è stata sempre l’‘Italia’ che conosciamo. Praticamente dalla fine dell’Impero Romano, fino al 1860 (data in cui si è costituito lo Stato italiano), la parola ‘Italia’ è stata usata per designare un’area geografica, non politica. Stati distinti e secolari hanno visto la propria evoluzione storica, sociale e politica talvolta in netta contrapposizione rispetto ad altri Stati contigui, i quali hanno avuto a loro volta un’evoluzione storica, politica e sociale differente da altri. Per oltre un millennio e quattrocento anni, sono esistiti – sebbene con il susseguirsi di diverse dinastie regnanti, influenze, allargamenti o restringimenti di confini – almeno ben sette/otto Stati diversi e più o meno stabili, Stati inglobati, proprio dal 1860 – ovvero solo da un secolo e mezzo: un nulla in confronto ad un millennio e quattrocento anni, eppure sembra molto più influenti – in un unico grande Stato, quello italiano. Per volere di chi? Perché è avvenuto ciò?
Dare il merito (o la colpa) alla sola corrente filosofica romantica di aver suscitato un così ampio e diffuso ‘sentimento’ di unione ed unificazione sminuisce, e di molto (anche se per molti legittima), tutta quella serie di azioni politiche fatte deliberatamente coincidere in un dato periodo della storia italiana del XIX secolo. Il nazionalismo europeo ottocentesco ha avuto certamente la sua importanza nell’azione unificatrice italiana, ma quanto e su chi tale ideologia ha influito davvero e nei riguardi di un’Italia unita? Può esservi il dubbio che tale ideologia, contraddistinta scolasticamente da un’eccelsa purezza intellettuale – tanto eccelsa quanto surreale – possa essere stata solo un pretesto per unificare ciecamente ciò che era legittimamente diviso addirittura da millequattrocento anni? E se tale dubbio può realmente sussistere, perché e in base a quale idea di fondo s’è voluto unire a tutti i costi l’‘inunificabile’ in un unico Stato?
Tali riflessioni sono indotte da un’altra serie di elementi. Fino alla Seconda Guerra Mondiale le differenze (ormai diventate ‘regionali’, in quanto interessanti delle ‘regioni’ italiane, non più degli Stati), soprattutto linguistiche ed economiche, erano ancora nettamente avvertibili. I primi ottan’tanni di unità sono stati caratterizzati da una progressione quasi irrefrenabile, rispetto al periodo antecedente al 1860, dell’economia di quello che sarebbe presto diventato il così detto ‘Triangolo industriale’ (Genova-Torino-Milano), ovvero di quella zona geografica che poco prima riguardava il perimetro statale del Regno di Sardegna, cioè lo Stato invasore – perché tale è stato a tutti gli effetti – fautore dell’unificazione. Di contro, la Napolitania e la Sicilia si sono ritrovate con le proprie banche defraudate e con le risorse della nascente industria pre-unitaria trasferite nell’area di sviluppo industriale del nord (come sottolinea anche Forgacs), causando una regressione dello stesso settore industriale napolitano e siciliano. Intanto prende anche vigore quella sorta di ‘anti-Stato’ che supplisce ad una evanescente presenza del nuovo Stato unitario sul territorio del vecchio Regno delle Due Sicilie: Camorra, Mafia, ‘Ndrangheta e Sacra Corona Unita troveranno il giusto humus per evolversi in vere e proprie ‘Società per Azioni’ di cui lo Stato stesso, al di fuori di ogni ideologia o colore politico, diventerà cliente, fino ed oltre gli scandali di Tangentopoli e delle stragi illustri di mafia.
La fine della Seconda Guerra Mondiale vede in alcune zone d’Italia dei risvegli nazionalisti, indici di un non del tutto sopito senso di appartenenza a qualcosa di diverso dall’Italia, un’Italia in cui il dominio fascista tentò in tutti i modi di accelerare quel senso culturale di appartenenza ad un unico Stato che di fatto non si era ancora sviluppato. Così in Sicilia (al di là di tutti gli interessi, mafiosi, non mafiosi ed internazionali che potevano starvi dietro) centinaia di migliaia di persone di ogni classe sociale scendevano per le strade a manifestare il proprio desiderio di riconoscersi in uno Stato differente da quello italiano, ovvero in uno Stato siciliano. La guerra tra l’Esercito volontario siciliano e l’Esercito italiano fu il culmine di quello che divenne un vero e proprio conflitto, risolto poi con la stipulazione del compromesso statutario, mai rispettato dalle istituzioni italiane e da quelle siciliane assoggettate alla politica italiana.
Da allora e fino a quest’epoca d’informatizzazione, l’unità italiana apparirà come una realtà ormai finalmente consolidatasi e lontana dall’essere rimessa in discussione. In barba a tale auspicio, ecco comparire la Lega Nord a cavallo tra la prima e la seconda Repubblica, una fazione politica i cui capi (Bossi, Miglio, Calderoli, Maroni, Borghezio) appaiono, più che altro, dèditi all’attacco razzista nei confronti degli extracomunitari e dei meridionali, senza che venissero prese in considerazione le cause di determinati processi, da loro chiamati ‘invasori’, che adesso venivano additati ed accusati. L’odore di un ritorno ad un’ideologia fascista e razzista mascherata da territorialismo viene confermata e smascherata almeno in parte da recenti affermazioni di importanti esponenti della stessa Lega come lo stesso Borghezio, di cui è stato filmato un intervento da una rete di cineamatori e pubblicato sul sito di video-streaming di YouTube, in cui lo stesso Borghezio affermava di voler riaffermare l’ideologia fascista in Italia grazie alla maschera del territorialismo, al fine di avere quante più adesioni possibile (notizia del tutto ignorata dai media italiani). Ma la rete internet diventa la vera ‘patria’ di ogni altra sorta di gruppi, virtuali e non, riuscitisi a ritrovare, formare o riformare proprio grazie allo spazio virtuale informatico: indipendentisti veneti, sardi (già forti da prima), neoborbonici e neo-separatisti siciliani hanno trovato in internet l’ambiente idoneo per poter diffondere un’ideale politico e sociale altrove snobbato, e pare che la cosa riesca davvero a muovere alcune coscienze, soprattutto all’estero, tra gli emigrati, in cui il senso di appartenenza ad una patria lontana è maggiormente accentuata dall’essere circondati da un ambiente che viene considerato sì ormai abitudinario, ma comunque ‘altro’, così che le tendenze identitarie territoriali subiscano un accentuamento tale da far abbracciare una nuova logica romantica e ‘popolare’, non d’élite come invece è stato per l’unità d’Italia. Perché gli emigrati, o molti di essi, soprattutto originari del sud e della Sicilia, farebbero riferimento ad una patria diversa dall’Italia? Perché viene data la colpa dell’emigrazione proprio alla stessa Italia, al suo sistema economico e politico volto al rafforzamento delle risorse del nord, piuttosto che quelle di sud e Sicilia, così da spingere la popolazione a cercare come vivere altrove, se non proprio nello stesso nord-Italia.
Intanto, soprattutto al sud e in Sicilia, i lavori considerati troppo umili, classicamente tralasciati dagli autoctoni, soprattutto per chi ha conseguito dei titoli di studio, tornano ad essere rivalutati da parte di chi tenta con tutte le proprie forze di non emigrare: così, ragazzi laureati e dottorandi, specialisti e diplomati accettano di diventare uscieri e centralinisti di call center, spesso sfruttati nonostante il (talvolta raro) regolare contratto a tempo determinato o addirittura non accettati poiché il titolo di studio in possesso della persona risulta troppo qualificante per la carica per cui si sta chiedendo di lavorare. Gli stessi titoli di studio acquisiti nelle università del sud e della Sicilia appaiono maggiormente sfruttabili al di fuori dei luoghi in cui sono stati conseguiti, proprio come avviene nei confronti del tipo di istruzione filo-europea rivolta ai paesi del Terzo Mondo di cui parla Giacomarra, causa primaria di ‘fuga di cervelli’ (Pirrone, 2002): secondo lo stesso Giacomarra, infatti, gli studi di matrice europea proposti anche all’interno dei paesi africani indirizzerebbero gli autoctoni ad un tipo di mercato lavorativo che non riguarda il luogo d’origine degli stessi studenti africani; non trovando come inserirsi in un mondo lavorativo che di fatto non esiste all’interno del proprio paese, chi ha un titolo del genere emigra in cerca di un modo per inserirsi in quell’universo lavorativo per cui si è stati istruiti, e rari sono i casi di chi rimane nel proprio paese al fine di tentare di innescare una svolta economica, svolta economica che sarebbe ad ogni modo di matrice europea, e quindi non per forza coerente con la situazione socio-politica e culturale complessiva autoctona.
Alla luce di tali considerazioni, quanto è possibile affermare che tale quadro generale, delineato nei confronti della situazione italiana e riguardante esattamente il suo sud e la Sicilia, non possa essere denotato con l’appellativo di ‘colonizzazione’, sebbene in una scala differente rispetto alla colonizzazione avvenuta (e che avviene tutt’ora sotto altre forme) in Africa, in Asia, in Sud America da parte delle potenze europee? Su che basi si può affermare che quelli del paese ‘Italia’ non siano allo stesso modo «confini tracciati in passato dai giochi d’azzardo della politica europea», come afferma Geertz riguardo ai confini tracciati in maniera folle dai colonizzatori nei riguardi delle aree africane, asiatiche e sudamericane? Studi sociologici parlano di una non meglio definita situazione economica e politica ‘italiana’, come se all’interno della stessa Italia non esistessero situazioni (che interessano la più parte del paese in termini di territorio e di popolazione) che scardinano completamente l’idea di poter prendere l’Italia tout court come caso di uno ed un solo tipo di economia, politica e società. Ma la cosa più raccapricciante, come accennato, è l’assenza di studi adeguati a riguardo. Si parla tanto di situazioni instabili di paesi come il Canada, lo Sri Lanka, l’Indonesia, il Congo; si sente spesso parlare di separatismo groenlandese, scozzese, catalano o basco, ma mai alcuno studio sociologico fa riferimento alle precarie condizioni italiane, rese ancor più instabili dal fatto che se avvenisse davvero un nuovo smembramento dell’area a breve, ciò creerebbe zone sottosviluppate indipendenti che oggi sono, allo stesso modo, delle zone sottosviluppate dipendenti su cui non vi è alcuna attenzione sociologica, proprio come prima non vi era nei confronti delle colonie europee sparse per il mondo: il problema è che non vi sarebbe alcuna preparazione da parte degli abitanti di tali zone ad un’eventuale indipendenza, poiché è ormai sopraggiunta l’abitudine a parlare così tanto di ‘Italia’ da dare per scontato tutta una serie di elementi entrati nelle concezioni culturali da soli 150 anni che richiamano solo ed esclusivamente ad uno Stato italiano, e non si dà spazio all’eventualità di diventare semplicemente siciliani o sardi, veneti o napolitani, e non più ‘italiani’, e questo rimprovero è rivolto non solo verso i mass-media italiani (che pure fanno il proprio dovere ‘nazionale’ in tal senso), ma anche e soprattutto verso i sociologi, ovvero chi dovrebbe essere capace di vedere oltre, di vedere una situazione un po’ diversa da quella che viene presentata dalla facciata mediatica classica, ovvero una situazione italiana in completa disgregazione.

BIBLIOGRAFIA:

Forgacs D., L’industrializzazione della cultura italiana (1880-2000), Il Mulino, Bologna, 2000

Geertz C., Mondo globale, mondi locali. Cultura e politica alla fine del ventesimo secolo, Il Mulino, Bologna, 1998

Giacomarra M. G., Migrazioni e identità. Il ruolo delle comunicazioni, Palumbo, Palermo, 2000

Pirrone M. A., Approdi e scogli. Le migrazioni internazionali nel Mediterraneo, Mimesis, Milano, 2002

da:http://www.ilcovo.mastertopforum.net/-vp10542.html?sid=c7808038c10e8585a6216c952d20f342

Che cos’è un paese, se non è una nazione?ultima modifica: 2010-08-05T15:29:48+02:00da tonyan1
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