Napolitana

(QUESTO SCRITTO CI E’ STATO PERVENUTO DA FONTE SCONOSCIUTA, CIO NONOSTANTE RITENIAMO DEGNA DI PUBBLICAZIONE PER RISPETTO DELLA PIACEVOLE LETTURA DEI NOSTRI LETTORI. STORIE COSI’ SONO ORMAI RARE, POICHE’ VIVIAMO IN UN MONDO DI GOSSIP CHE NON LASCIA SPAZIO AI SOGNI…VERI.)   A. Iannaccone

Nella seconda metà dell’Ottocento, quando da pochi anni era caduto il Regno delle due Sicilie e si era costituito il nuovo Regno d’Italia, la pesca era una delle più importanti risorse economiche del popolo napoletano. Di giorno lo splendido golfo della città, da Capo Miseno a Sorrento, brulicava di piccole vele variopinte e di notte il limpido specchio d’acqua chiamato Marechiaro, si illuminava delle mille lanterne dei pescatori che, dalle loro barchette, calavano nel mare lunghe reti.

foca.jpgLe imbarcazioni più grandi, le paranze, doppiavano l’isola di Capri e, costeggiando l’alta scogliera di Amalfi, si inoltravano nel golfo di Salerno, giù, giù fino a Capo Palinuro e oltre. Là il mare era più aperto e la pesca più abbondante, ma navigare era più pericoloso. Nelle belle mattine, quando il tempo era sereno e la brezza soffiava leggera e costante, le imbarcazioni si avvicinavano veloci all’approdo del porto dove presto avrebbero scaricato i pesci appena pescati, guizzanti e lucenti come l’argento vivo. Ma a volte giungeva una burrasca improvvisa: le nuvole minacciose si addensavano sulle teste dei marinai, la tramontana faceva sbattere le vele e piegare l’albero maestro, a reggere il timone per vincere le onde ci voleva la forza di un leone.

Allora le madri, le mogli, le sorelle, spesso precocemente vestite di nero per lutti troppo prematuri, salivano sulla collina del faro e reggendosi in piedi a fatica contro il vento forte che faceva svolazzare i loro scialli cupi, spingevano lo sguardo lontano, per vedere se la vela amata stava tornando al sicuro in porto.
Peppino possedeva una piccola barca, un gozzo. Gli era costato ore e ore di lavoro, perché, per risparmiare, aveva dovuto aiutare lui stesso il mastro d’ascia a costruirla, in più ci aveva speso tutti i suoi risparmi, guadagnati con giorni e notti di fatica, lavorando come mozzo sulla paranza di Don Gaetano.

Ma ora era soddisfatto, pescava libero, senza padrone, e riusciva, bene o male, a mantenere la sua famiglia già numerosa. Aveva trovato dei buoni punti dove gettare le reti che issava poi a bordo quasi sempre abbastanza cariche di pesci. Ogni tanto, però le recuperava senza sforzo, leggere flosce e quasi vuote: la pesca era andata male In quei casi, il giorno seguente, doveva avventurarsi lontano, fino a oltrepassare Salerno, con la sua piccola imbarcazione, in mezzo ai cavalloni, non per spavalderia, ma per bisogno, per riuscire a sfamare i suoi bambini.

Da qualche tempo le cose gli andavano decisamente male, la sfortuna sembrava perseguitarlo, il pescato era sempre più scarso. Decise di controllare attentamente le sue reti, vi trovò delle grosse smagliature, quasi degli squarci. Meravigliato ne parlò agli altri pescatori. Qualcuno gli disse che era tutta colpa di una vecchia strega dispettosa, che si aggirava di notte a tagliare le reti per rubarne il contenuto. Ma come poteva, una vecchia, nuotare sott’acqua per fare quei buchi in fondo alla rete? Peppino pensò che molto più probabilmente si trattava di qualche scugnizzo mariuolo, come ce n’erano tanti per le vie di Napoli, che, spinto dalla fame, viveva di espedienti.

Notò che questi furti avvenivano solo quando calava le reti nei pressi di Posillipo.

foca1.jpgUna notte tornò a pescare proprio là pensando: «Voglio proprio vedere se questa volta, invece del pesce, acchiappo quei furfanti, che vengono a rubare proprio a me, che devo faticare per guadagnarmi il pane». Lentamente calò le reti, alla luce della luna e subito sentì un fruscio, come se qualcuno nuotasse in apnea, sotto la chiglia della barca. Si armò della corta fiocina che usava per colpire i tonni quando si intrappolavano nella rete e minacciavano di romperla e scese cauto in acqua, iniziando a nuotare a rana, silenzioso. Presto vide una scia leggera, la seguì, quando fu ai piedi del promontorio di Posillipo, un corpo uscì dall’acqua e avanzò pesantemente nel buio.

Anche Peppino prese terra e avanzò lentamente sui piccoli sassi aguzzi della spiaggia, seguendolo. Presto si trovò in una piccola grotta, per terra scorreva un rigagnolo di acqua più fredda di quella marina, le propaggini di un torrente sotterraneo. L’ingresso, abbastanza ampio, lasciava penetrare all’interno della caverna la luce del plenilunio, l’uomo distinse, addossata alla parete, una piccola testa rotonda con due grandi occhi neri che lo fissavano. Peppino pensò alla strega e alzò la fiocina minaccioso.
«Che vuo fa??? Me vuo accirere!!!!» disse una strana voce nel buio.
«Ma tu chi sei? Non sei una strega, sei un animale, una foca e parli napoletano!»
«E che debbo parlare? Il russo? Sono nata in questa grotta e ho sempre vissuto qui. I delfini vagabondi, che incontrano nell’Oceano le grandi balene, mi hanno raccontato che altre della mia specie vivono in paesi freddissimi, dove le montagne sono bianche come il sale, là a volte non sembra mai fare giorno e la notte, buia come la pece, dura mesi e mesi, altre volte invece sono le giornate ad essere lunghissime, ma la luce del sole è pallida e il suo calore è troppo debole per toglierti il gelo dalle ossa». Disse poi che i delfini la avevano invitata ad andare in mare aperto, a viaggiare per conoscere il mondo, a incontrare almeno altre sue simili, le foche monache che vivevano sulle coste della Toscana, della Sardegna, della Spagna, del Marocco. Ma lei aveva risposto che non c’era posto più bello che’ngopp a Posillipo, così, forse offesi per il suo rifiuto, l’avevano derisa per il suo forte accento partenopeo e avevano cominciato a chiamarla La Napolitana: «Ebbè?! Napolitana sono e me ne vanto! E da qua non me ne vado!»
«Eh già! E te ne stai qua a rubarti il pesce mio! A togliere il pane di bocca alle creature mie!» replicò Peppino.
«Pur i teng i piccirilli!» disse Napolitana mostrando i suoi cuccioli, distesi sulla morbida sabbia del ruscello sotterraneo. Il pescatore abbassò lo sguardo impietosito, incerto se colpire o risparmiare la povera bestia.

Napolitana se ne accorse subito, ma per non farsi sfuggire la possibilità di avere salva la vita disse subito: «Sì nu bravo guaglione! Voglio raccontarti una storia, poi farai quello che ritieni più giusto. Tanti anni fa, in una grande villa, sopra a Mergellina, viveva una bellissima fanciulla.

Suo padre voleva farle sposare all’uomo più ricco e potente della zona, ma lei aveva visto, sul molo, dove si trova via Caracciolo, un giovane pescatore che veniva dall’isoletta di Nisida, a vendere la sua merce. Era alto come una statua di bronzo, la testa piena di riccioli neri, gli occhi blu come il mare. La ragazza subito se ne innamorò. Andava spesso lungo la marina per incontrarlo. Un giorno tagliò una ciocca dei suoi capelli biondi, la legò con un nastro di seta profumata e, senza farsi vedere da nessuno, la diede in pegno d’amore al bel pescatore. Il ragazzo portava sempre sul cuore, nella tasca della camicia, quei capelli d’oro, non passava notte che non sognasse la fanciulla, la immaginava tra le sue braccia, ma sapeva che il suo sogno era impossibile e non gli restava che soffrire in silenzio. Un giorno, mentre seduto su uno scoglio, piangeva pensando alla sua amata, gli apparve una di noi, una mia antenata, ma più bella di me, grande e bianca come una fata. Vieni con me, montami sulla groppa! Gli disse per consolarlo. Il ragazzo, soprappensiero, quasi senza rendersene conto, ubbidì e presto fu portato in fondo al mare, in un paesaggio incantato, tra pesci di tutti i colori, alghe danzanti come ballerine, coralli alti come querce e ostriche dalle cui valve socchiuse brillavano perle grandi come noci. Si tolse la camicia, raccolse parte di quel tesoro meraviglioso e ve lo ripose, poi, caricatosi il prezioso fagotto sulle spalle, riemerse in superficie ricco! In seguito, ricordando dove si trovava quel luogo misterioso, vi tornò spesso. Accumulato così un grande patrimonio, si presentò a chiedere la mano della fanciulla portandole in dono un diadema di splendide perle incastonate su rami di rosso corallo. Il padre acconsentì di buon grado alle nozze!»

Dopo un momento di stupore, Peppino replicò: «Lasciate perdere, Comare! Con le vostre chiacchiere volete solo distrarmi, per salvarvi la pelle! Nessuno di noi pescatori può fare fortuna così facilmente! Ma mi piacete e vi lascio vivere lo stesso, anche perché ci sono loro!». E rivolse lo sguardo ai cuccioli che dormivano beati.
«Sempre così voi umani! Non credete mai a nulla! Prova ad andare con la tua barca oltre Procida, quando sarai in prossimità di Ischia vira a Settentrione, procedi per un po’ tenendo sempre bene in vista la costa, presto troverai uno specchio d’acqua verde smeraldo, allora tuffati!» aggiunse Napolitana.

Peppino sollevò le spalle e si allontanò dubbioso, ma un giorno andò a pesca proprio nei pressi di Ischia. Ricordò le indicazioni della foca, vide un punto dove l’acqua gli sembrava più limpida e trasparente del solito, con riflessi verdi e rosati, si tuffò! Trovò alcuni bei rami di corallo, certo non era il tesoro di cui aveva parlato Napolitana, ma pensò che, tornando spesso e facendo immersioni frequenti, avrebbe potuto raccogliere una discreta quantità di quel materiale prezioso. Così fece ed ebbe un po’ di guadagno in più per far fronte ai bisogni della sua famiglia numerosa.
L’ultimo esemplare di foca monaca avvistato in Campania fu ucciso a Capri nel 1910, forse non sapeva raccontare le favole, o forse chi la incontrò non si preoccupò di ascoltarla..

(Le foto sono aggiunte da noi.)

Napolitanaultima modifica: 2010-03-28T10:41:48+02:00da tonyan1
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