Quella vittoria apriva la strada verso la capitale del Lombardo-Veneto, dove l’imperatore dei francesi e il re di Piemonte entravano difatti in trionfo quattro giorni dopo. A quel punto, a circa un mese dall’inizio delle ostilità, l’inaspettata débacle dell’armata austriaca, costretta a una precipitosa ritirata, provocava quasi una crisi di governo e induceva il ventinovenne imperatore d’Austria Francesco Giuseppe ad assumere il diretto comando delle operazioni. Ma il 23 e il 24 giugno, tra Solferino e San Martino sulla sponda meridionale del Garda, alla presenza dei tre sovrani sui campi di battaglia, i francopiemontesi umiliarono ancora una volta gli austriaci. Questa la storia. O meglio, una parte di essa: quella che si continua ufficialmente a ricordare. E che lascia in ombra altri aspetti di quei tumultuosi anni di trattative diplomatiche e di vicende militari che segnarono il febbrile biennio 1859-60, decisivo per il processo di unificazione nazionale e per la nascita dello Stato unitario italiano. Un biennio che ci apprestiamo a celebrare in pompa magna e con molta retorica.
Ora, la Seconda Guerra d’Indipendenza e dintorni non furono in realtà una pagina granché gloriosa, specie per quel che riguarda i rapporti con la Chiesa; e la soluzione unitaria dell’assetto italiano, che ormai a detta di (quasi) tutti si è rivelata una scelta inadeguata per il Paese, fu una soluzione imposta dal convergere delle ambizioni espansioniste sabaude e del neogiacobinismo mazzinianogaribaldino con la spolveratura ‘democratica’ di plebisciti dominati dalla violenza e dall’intimidazione. Io credo che, al riguardo, un po’ di sano revisionismo sarebbe salutare. Intanto, per inserire quegli eventi in un contesto più ampio e preciso, si dovrebbe parlare di guerra franco-austriaca e riconoscere che essa non venne affatto ‘necessariamente’ determinata da ‘grida di dolore’ di sorta, che altro non erano se non quelle dei propagandisti mazziniani e garibaldini finanziati dal Piemonte e non certo maggioritari nella penisola. Essi, riuniti nella Società nazionale, avevano sin dall’anno prima rinunziato alla pregiudiziale repubblicana pur di giungere a un’unità nazionale egemonizzata dal Piemonte per legittimare la quale, nel ’56, il primo ministro piemontese Cavour aveva partecipato nel M ’54-’56 alla guerra di Crimea, episodio bellico che in alcun modo riguardava il suo paese ma che consentì di proporre a livello internazionale la ‘questione italiana’. I soliti «pochi morti da gettar sul piatto della bilancia» per sedere al tavolo dei vincitori, come cavourianamente e cinicamente si sarebbe espresso nel ’40 Benito Mussolini prima di entrar in guerra al fianco con la Germania. Ma il cinismo di Mussolini fu punito.
A Cavour invece andò bene. Il 21 luglio del 1858, durante il convegno segreto di Plombières, si decise che la Francia sarebbe entrata in guerra
Soprattutto i cattolici e l’imperatrice Eugenia erano inquieti per l’insicurezza che tutto ciò avrebbe determinato a danno dello Stato della Chiesa. Inoltre, le battaglie – soprattutto Solferino e San Martino furono particolarmente sanguinose ma in fondo inconcludenti: gli austriaci si erano attestati nell’imprendibile Quadrilatero (le formidabili piazzeforti di Verona, Legnago, Mantova e Peschiera), praticamente imprendibili. Napoleone non ce la faceva più a resistere alle critiche che gli provenivano dal suo paese e i piemontesi, da soli, non avrebbero mai sfondato. Infine, la commedia della malafede tra le diplomazie di Parigi e di Torino giunse a un esito finale allorché il Piemonte, sentendosi abbandonato dalla Francia, dette una spallata alle speranze napoleoniche di egemonia sulla penisola e imboccò la strada della costruzione del regno unitario cavalcando la demagogia di mazziniani e di garibaldini e sostituendo all’appoggio francese quello inglese. Sua Maestà britannica aveva difatti grossi interessi commerciali e navali in Italia meridionale, specie in Sicilia, collegati con l’asse del controllo strategico mediterraneo garantito dalle piazzeforti di Gibilterra e di Malta (colonia britannica dal 1814) che le garantiva il collegamento con un paese formalmente ancor soggetto al sultano turco ma di fatto ormai semicolonia inglese, l’Egitto. Ove si stava aprendo un nuovo teatro di contesa tra i due ‘alleati-avversari’ nella corsa all’imperialismo coloniale, la Francia e l’Inghilterra: l’avvìo della costruzione del canale di Suez, che avrebbe promosso i porti italiani in prima linea sulle rotte verso l’India e l’Asia sud-orientale.
La posta era alta, l’alleanza con il giovane regno d’Italia importante. Ma che, per piacere, non si continui ancora a far della retorica risorgimentale su questa storia di schermaglie diplomatiche e di egemonie internazionali a far le spese della quale, una volta di più, erano i popoli gettati nel macello dei campi di battaglia.