In memoria del Banco di Sicilia. Una lunga tormentata storia.


di Massimo Costa (Università di Palermo)

Il Banco di Sicilia è stato la Banca dei Siciliani, la banca pubblica, praticamente per secoli.
Esso nasce ufficialmente con le “Reali Casse di Corte” di Palermo e Messina, succursali del Banco delle Due Sicilie (di Napoli) dotate di ampia autonomia contabile ed organizzativa (1843). Nascevano per sostituire le gloriose ma ormai inadeguate banche comunali delle due maggiori città siciliane: la Tavola di Palermo (nata nel 1551) e la Tavola di Messina (nata nel 1587). La prima era la terza banca pubblica del mondo per anzianità, aveva praticamente inventato la “moneta di banco” (con le sue “polizze”, antenate della cartamoneta) e svolgeva funzioni di Tesoreria per l’intero Regno di Sicilia, in pratica una banca centrale ante litteram.
Sebbene non vi sia una stretta successione giuridica tra il Banco di Sicilia e le due antiche Tavole, vi fu però una stretta successione funzionale, visto che immediatamente le funzioni di Tesoreria pubblica e le principali funzioni “sovrane” passarono alle Casse di Corte appena istituite e che le Tavole vennero messe in liquidazione entro gli anni ’50 del XIX secolo con passaggio in massa dei depositi da esse al Banco.
Nel 1848 il Governo Siciliano rivoluzionario espropria le due Casse e le riunisce nel “Banco Nazionale di Sicilia” sotto forma di società anonima, parte di proprietà del Regno di Sicilia ricostituito, parte proprietà di privati. L’anno successivo le quote sociali del “Banco” a seguito del ritorno del governo duosiciliano sono confiscate e riportate nelle mani del tesoro napoletano, ma l’autonomia giuridica del “Banco” è mantenuta.
L’anno dopo ancora (1850) il “Banco” è costituito in ente pubblico con il nome di “Banco dei Regi Dominii al di là del Faro” con funzioni di Banca centrale per il territorio della Sicilia (di fatto uno stato confederato a Napoli) e questa è comunemente considerata la sua data di nascita ufficiale.
La dittatura garibaldina, oltre alla confisca di circa un terzo delle riserve auree del Banco per pagare i debiti di guerra e le spese straordinarie, ne cambia il nome in “Banco di Sicilia” eretto in “ente morale”. Nel contempo istituisce un’altra banca pubblica, radicata nel territorio, e destinata ad un ruolo anch’esso non meno importante: la Cassa Centrale di Risparmio Vittorio Emanuele per le Provincie Siciliane, nel tempo diventata semplicemente la Sicilcassa.
Nei primi anni dopo l’annessione all’Italia il Banco continua ad operare come istituto di emissione secondo le modalità antiche del Regno delle Due Sicilie, emettendo cioè i cosiddetti “Titoli apodissari”, ancora non molto diversi dalle “polizze” che la Tavola di Palermo aveva inventato tre secoli prima, ma teoricamente all’ordine e non al portatore come le vere e proprie banconote moderne.
Nel 1867 viene ufficialmente riconosciuto al Banco il diritto di emissione in senso moderno e di banca centrale per il territorio siciliano del Regno d’Italia. Dopo una prima gestione “scandalosa” del Banco nei primi anni posteriori all’Unità esso progressivamente diventa una delle banche più importanti d’Italia grazie alla bilancia commerciale costantemente attiva della Sicilia e grazie all’opera infaticabile e rigorosa di Emanuele Notarbartolo che la governa sino al 1893, anno del suo assassinio.
Nel 1870 è autorizzata ad aprire filiali fuori da Palermo e Messina e progressivamente si irrobustisce. Il Banco resta lontano dallo scandalo della Banca Romana e, grazie anche al suo diverso ordinamento giuridico, riesce a mantenere insieme al Banco di Napoli, il diritto di emissione anche dopo la costituzione della Banca d’Italia alla fine del secolo.
Nella sua progressiva espansione arriva a svolgere funzioni di banca centrale anche nei possedimenti libici per mezzo della Banca di Tripoli dalla stessa controllata.
Nel 1926 le funzioni di emissione vengono accentrate alla Banca d’Italia e le riserve auree e valutarie del Banco confiscate alla Sicilia. Il Banco però mantiene assieme al Banco di Napoli il diritto di emettere vaglia cambiari e altri titoli speciali all’ordine riservati alla sola banca centrale, come confermato dalle leggi collegate al codice del 1942.
Nel 1936, in occasione della pubblicizzazione della Banca d’Italia, ottiene una congrua partecipazione al capitale della stessa.
Nel 1946 si vede riconosciute dallo Statuto speciale della Regione Siciliana funzioni costituzionali, all’art. 40, in materia di gestione delle riserve valutarie siciliane per mezzo di apposita “Camera di Compensazione” e, implicitamente, di Tesoreria “naturale” nonché finanziatore dei disavanzi della Regione Siciliana in collaborazione con la Sicilcassa. La parte dello Statuto relativa alla restituzione alla Sicilia delle proprie riserve valutarie per il tramite del Banco non è stata però mai attuata.
Negli anni della Repubblica il Banco si sviluppa lentamente ma costantemente in un clima di rigido oligopolio del sistema bancario italiano. Nonostante la complessiva subalternità rispetto al sistema bancario settentrionale mantiene il proprio posto di rilievo tra i maggiori istituti di credito italiani, apre filiali in tutta Italia (escluso il Mezzogiorno continentale) e in particolare nel Triveneto, nonché all’estero, con una presenza, negli anni ’80, che bene o male va da Singapore a Los Angeles.
Ma il “Banco dei siciliani” non sopravviverà al vento della globalizzazione ed alla caduta del Muro di Berlino.
Si inizia nel 1990 con la trasformazione (a rigore incostituzionale, viste le funzioni garantite dallo Statuto siciliano) in società per azioni e trasferimento del pacchetto azionario alla neocostituita “Fondazione Banco di Sicilia”.
Nel 1992 con una ricapitalizzazione determinata da politiche aziendali non sempre consistenti con la sopravvivenza a lungo termine dell’istituto, avallate “misteriosamente” dalla Banca d’Italia, entra nel capitale sociale la Regione Siciliana stessa, rendendo la “politica” quanto mai determinante nella gestione del Banco.
Ma il colpo avviene nel 1997, nell’apparente indifferenza generale. L’occasione è data dalle condizioni “comatose” dell’altro grande istituto bancario pubblico siciliano, la Sicilcassa, la cui gestione scandalosa non era stata mai oggetto di alcuna reprimenda da parte dell’istituto di vigilanza. La Sicilcassa viene “salvata” con i soldi dello Stato, padrone del Mediocredito Centrale. Ma il Mediocredito, anziché “comprare” direttamente la Sicilcassa “costringe” il Banco, che pure allora avrebbe avuto spalle solide senza partner continentali, a salvare “Sicilcassa” con i suoi soldi. In pratica Mediocredito (e quindi il Tesoro italiano) entrava come socio principale nel Banco, e questo, con i nuovi capitali, acquistava e incorporava Sicilcassa.
La Regione patteggiava, da socio di minoranza insieme alla Fondazione dei modesti patti parasociali: la nomina di alcuni consiglieri di amministrazione, la permanenza in vita del Banco come istituto autonomo per soli 12 anni successivi al 1997!
Da quel momento in poi il Banco entra nella fase terminale della sua vita, soltanto dilazionata nel tempo ma già decisa.
Nel 1998 i grandi alberghi siciliani, cuore del patrimonio del Banco, vengono svenduti all’immobiliare di Caltagirone con il pretesto che le banche dovevano fare solo attività bancaria.
Nel 1999 il tesoro si disfa del Mediocredito centrale cedendolo alla Banca di Roma. Il “Banco”, indirettamente, cessa di essere banca pubblica e finisce in mano di privati.
Poco a poco le funzioni collaterali del Banco sono spostate da Palermo a Roma, ad esempio il centro informatico, etc., lasciando per il momento in Sicilia solo il core business.
Nel 2002 si riorganizza il gruppo bancario romano sotto il nome di Capitalia. La Regione e la Fondazione assurdamente vendono le loro partecipazioni dirette nel Banco, che diventa del 100 % sotto il controllo di Capitalia, e si accontentano di una partecipazione infima in cambio nel capitale complessivo di quest’ultima.
Capitalia utilizza questo controllo per farsi cedere a prezzi nominali tutti gli edifici storici del Banco e della Cassa di Risparmio, di valore praticamente inestimabile, frutto del lavoro e del sacrificio di generazioni di Siciliani, che ora finiscono nelle mani dei grandi banchieri privati, letteralmente con un tratto di penna.
Nel 2007 Capitalia si fonde in Unicredit. Alla Regione e alla Fondazione vanno in concambio quote ancor più irrisorie nel patrimonio di questo colosso bancario privato (lo 0,6 % a testa).
Unicredit sulle prime fa intendere di voler mantenere autonomia al Banco, ma costringe lo stesso a rinchiudersi nei confini della Regione Siciliana, cedendo tutti gli sportelli fuori dall’Isola e centralizzando tutte le istruttorie di concessione di credito di una qualche minima rilevanza sempre fuori dall’Isola. Il Banco è ormai un’ombra.
La crisi del 2008 e la persistenza dei patti parasociali costringono Unicredit a dilazionare il colpo finale. All’aumento di capitale sociale di Unicredit per far fronte alla crisi partecipano anche Regione e Fondazione per non perdere le loro ragioni relative di capitale.
Nel 2010 viene decisa la soluzione finale: il Banco entro l’anno sarà fuso per incorporazione in Unicredit. L’ultima presidenza del Banco, coraggiosa su altri fronti, sarà ricordata per il sussiegoso silenzio su questa vicenda.
Ne restano tre vestigia, ricordo di un passato in cui la storia delle istituzioni finanziarie si faceva anche in Sicilia:
– il “marchio”, che forse sarà ancora esposto negli sportelli siciliani per ingannare la clientela, come una vera e propria mummia dietro cui si nasconde un feroce sciamano sanguinario, predatore dei risparmi siciliani che devono essere investiti a favore del solito “maledetto” Nord;
– la partecipazione della Regione in Unicredit ed in altri minori istituti bancari – Irfis, Ircac, Crias – seme per la speranza di ricostruzione di una vera “Banca di Sicilia”;
– la fondazione Banco di Sicilia, il cui patrimonio è ancora solido e la cui guida è ancora in mani più che attive, che lascia ancora qualche speranza per il futuro dopo il “fondo” che è stato toccato in questo torno di millennio.
Questi i fatti, i fatti storici, quasi senza nessun commento. Nessun popolo potrà mai prosperare senza una banca propria, e la Sicilia ormai è politicamente matura per costruirsene una. Così non era vent’anni fa, quando l’assenza di un soggetto politico siciliano consentì al peggior ascarismo di compiere un crimine che nemmeno i saccheggiatori garibaldini e postunitari ebbero il coraggio di fare. Ma la nuova Banca di Sicilia sarà solo erede morale del vecchio Banco. Questo, in quanto tale, non è più. Non esiste più e non lo si può fare risuscitare.
I Siciliani, un po’ commossi, ne danno la mesta notizia.
Il miglior modo per ricordarlo è guardare avanti e non ripetere mai più gli errori di questa brutta storia.


In memoria del Banco di Sicilia. Una lunga tormentata storia.ultima modifica: 2010-07-01T16:24:27+02:00da tonyan1
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